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L’inglese per vendere il vino: questione di small talk – con Michela Colasante

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Come migliorare il nostro inglese per vendere il vino? Quali cose sottovalutiamo? Quali altre dovremmo superare?

Ne parliamo con Michela Colasante, trainer, interprete e traduttrice freelance, titolare di Beecome che da anni lavora nel settore del vino.

E’ decisivo lo “small-talk”: la conversazione di contorno per costruire la relazione. Quando non stiamo ancora parlando di affari, non stiamo trattando e nemmeno raccontando il nostro vino. Ci serve saper intrattenere e accogliere il nostro cliente: quando lo andiamo a prendere all’aeroporto, quando siamo a cena, quando parliamo di calcio. Saperci esprimere in modo agevole in quei momenti diventa più importante che conoscere esattamente tutti i termini tecnici del vino.

Note alla puntata:

Michela Colasante di Beecome – link

Michela su Linkedin – link

Michela su Facebook – link

02:40 Gli italiani e l’inglese: questione di relazione

05:15 L’inglese prima e dopo gli affari

06:50 Lo small- talk in inglese per vendere il vino

10:20 Non solo l’inglese: il cinese, il russo, …

11:35 Intermedio, autonomo, avanzato. La differenza tra cavarsela e capire le necessità di chi abbiamo davanti

13:45 Gli errori che facciamo come italiani quando parliamo in inglese

14:45 Ma la lingua inglese non è il primo problema

17:50 L’inglese scritto: le email che mandiamo

22:15 Chi sta facendo le traduzioni per il nostro vino?

24:45 La prima che possiamo fare: gli strumenti online, i video, i ted talks, gli articoli e le pagine da cui trarre spunti

29:00 Parla, parla e ancora parla con qualcuno, via skype o al telefono: buttati, con un amico o con un cliente.

Puoi ascoltare l’intervista audio, cliccando in alto in questo articolo. Qui sotto c’è la completa trascrizione.

Stefano: Benvenuta Michela!

Michela: Grazie Stefano, buongiorno!

Stefano: Allora, Michela Colasante, vicentina di Schio, se non sbaglio. Trainer, interprete, traduttrice freelance in inglese, italiano e spagnolo, e ha un background economico-commerciale: lavora da tempo con export manager nelle piccole e medie imprese, ha un’azienda che si chiama Beecom e accompagna persone e aziende, e prodotti, nel processo di internazionalizzazione del Made in Italy, insomma. La cosa che mi piace davvero e per cui Michela è qui, è che il suo approccio rispetto alle lingue è molto orientato alla comunicazione e al marketing, e che la sua esperienza è particolare anche nel mondo del vino. E quindi sei perfetta, insomma, per Wine Internet Marketing. Senti Michela, partirei dal problema – se c’è un problema, ce lo confermerai tu – il problema con l’inglese: si dice che noi italiani ce la caviamo sempre, che alla fine ci facciamo capire e che in qualche modo sopperiamo, forse, a delle carenze con la nostra capacità di comunicazione. Ma questo è vero? Ed è vero in che misura?

Michela: È vero nel senso che la capacità è un po’ uno stereotipo, però effettivamente lo scontro nell’esperienza concreta e quotidiana che l’italiano, attraverso la gestualità e la sua capacità comunque comunicativa di entrare in empatia con il cliente o con un business partner internazionale, di qualunque cultura e provenienza sia, questa capacità dell’italiano è nota. Però effettivamente, conoscere la lingua, conoscere delle sfumature, conoscere in particolare la cultura del cliente o della persona con cui ci si interfaccia, fa la differenza. Nel senso che è importante che passi il messaggio, è importante creare la relazione, soprattutto se si vuole fare business nel lungo termine. Però, diciamo, sì, riuscire ad accogliere un cliente o comunque porsi nel modo giusto quando si va a visitare il suo paese e quando si entra in relazione con lui, è fondamentale: quindi non basta solo riuscire ad essere simpatici o comunque accoglienti, riuscire a comunicare nel modo giusto, ma effettivamente conoscerne la cultura e la lingua e soprattutto le differenze culturali, può fare la differenza, per non perdere opportunità di business e per calarsi un po’ nella realtà del cliente e capire cosa è effettivamente importante per lui, quindi non solo un discorso linguistico, ma anche un approccio multiculturale, e interculturale direi più che altro…

Stefano: Quindi hai già introdotto un paio di questioni, che vanno un po’ al di là della questione tecnica che forse, credo, sia superata, nel senso che ciascuno sa raccontare sé stesso, il proprio prodotto, l’azienda, magari le sfumature tecniche. Ciò che forse, ci stai dicendo, in cui siamo più deboli è nel creare questa relazione con una capacità linguistica che sappia non soltanto accogliere, ma creare la fiducia e quella naturalezza che forse richiedono le relazioni prima umane e poi commerciali.

Michela: Certo. Infatti la relazione, soprattutto in un settore dove effettivamente il cliente, o comunque il partner – possa essere un buyer, un importatore, un distributore o anche un agente – quello che ricerca è l’“Italian lifestyle”, quello che noi chiamiamo “Italian mood”: tutto quello che ruota attorno al vino in sé o a una piacevole serata in compagnia, e quindi tutto quello che riguarda la socialità e lo stare assieme e quindi la convivialità, cioè tutti questi aspetti – in questo settore in particolare – contano molto di più che non magari la conoscenza specifica di alcuni dettagli tecnici. Quindi, creare una relazione di lungo termine, e questo si fa una volta che si acquisisce una competenza linguistica che ci permette di essere sciolti e di avere anche una sorta di autostima e sicurezza quando ci si interfaccia con il partner straniero in lingua, ma anche la conoscenza culturale che ci permetta di far stare a proprio agio il nostro interlocutore proprio in queste situazioni conviviali: quindi, non solo ad una fiera o ad un evento, ma anche ad una cena… perché sappiamo, appunto, che gli affari soprattutto in questo settore si fanno a cena, si fanno davanti ad un bicchiere di vino e si fanno in una situazione anche magari informale, dove però si deve creare una piacevole atmosfera.

Stefano: Quindi saper parlare del tempo, del calcio, di quello che sta succedendo magari all’aeroporto, a cena, ad una situazione di incontro, diventa importante.

Michela: Certo, è tutto quello che è lo “small-talk”: tutta questa conversazione di contorno, che però non è più contorno, ma che diventa parte integrante della conversazione quando non parliamo in dettaglio di affari, di una trattativa o di una negoziazione o del nostro prodotto a livello più tecnico, ma sapere intrattenere l’interlocutore, come dicevi tu, quando lo andiamo a prendere all’aeroporto, quando siamo a cena… essere informati su quello che succede a livello internazionale, perché avere degli argomenti o comunque una conoscenza concreta dell’attualità, e quindi dei temi principali, e anche quello che avviene all’interno del suo paese perché effettivamente, se ci pensiamo, è importante – che ne so, se andiamo in Germania – sapere che sono in atto le elezioni o che c’è qualche tema che a loro sta particolarmente caro, anche se poi sappiamo che ci sono dei temi “sensitive”, un po’ sensibili o rischiosi, su cui è meglio non avventurarsi, come la politica, la religione o qualche altro tema un po’ più ostico. Però, saper parlare del tempo, saper parlare dell’attualità o dell’andamento generale del business o comunque di temi poco pesanti…

Stefano: Cioè, se parliamo adesso con un americano di USA, è meglio non parlare di Trump e Hilary…

Michela: Meglio non parlare di Trump e Hilary perché non sappiamo chi abbiamo di fronte, quindi non sappiamo effettivamente da che parte si schiera, però è indispensabile sapere che sono in corso le elezioni e che quindi una grossa fetta del pubblico è un po’ coinvolta da questa cosa, quindi segue i dibattiti, segue i confronti (scontri-confronti!), e quindi essere informati su questo chiaramente fa la differenza: può starci la battuta, magari sempre un po’ con leggerezza, senza addentrarsi troppo nel dettaglio e soprattutto se si tratta del primo incontro犀利士

. Poi, è chiaro che a mano a mano che conosciamo il nostro interlocutore, e mano a mano che troviamo del terreno in comune – perché alla fine è quello l’obiettivo, trovare delle cose che abbiamo in comune, degli interessi, che possono essere un’attività sportiva, qualcosa che riguarda la famiglia… anche se, anche la famiglia, al primo approccio, può essere un argomento un po’ ostico – però poi a mano a mano che si acquisisce confidenza, sono tutti elementi che arricchiscono la relazione e che rendono anche bello il business. Del resto, noi facciamo business con le persone, non con i prodotti e né con le aziende, quindi trovare cose in comune con il nostro interlocutore-cliente è la cosa più bella per questo scambio anche a livello personale, e non solo commerciale e professionale.

Stefano: Ma la domanda è: quindi fare questa cosa è piuttosto complicata, nel senso che prevede, al di là di un’attenzione al nostro interlocutore – che riguarda anche la sua cultura e il suo modo di rapportarsi a noi, di percepirci, i suoi gusti – prevede anche una conoscenza linguistica forse un po’ più approfondita o diversa da quella che abbiamo squisitamente tecnica del nostro settore… come si fa? Da dove si parte?

Michela: La conoscenza di base della lingua – e qui stiamo parlando dell’inglese, anche se poi potremmo aprire delle parentesi, nel senso che ci rendiamo sempre più conto che l’inglese ormai non è più sufficiente: stiamo parlando dell’inglese come lingua franca internazionale, come lingua degli scambi, lingua commerciale, però vedo sempre più aziende, soprattutto in questo settore, che investono sul cinese, investono sul russo, quindi fanno della formazione specifica, hanno dei contatti, o addirittura assumono del personale che ha queste competenze linguistiche che vanno anche oltre la lingua inglese… perché ormai diciamocelo, l’inglese non è più sufficiente se si vuole effettivamente approfondire, internazionalizzare su mercati diversi, su mercati anche emergenti o in forte sviluppo e quindi, tornando all’inglese, la conoscenza intermedia non è più sufficiente…

Stefano: “Intermedia”, quindi il livello di riferimento che tu prendi è l’intermedio.

Michela: Diciamo che un livello intermedio è anche difficile da definire, nel senso che, senza entrare nel dettaglio di quelli che sono i livelli ufficiali della conoscenza di una lingua straniera…

Stefano: Puoi aiutarci a farci capire?

Michela: Per un livello intermedio, diciamo, il Quadro di Riferimento Europeo identifica la conoscenza di una lingua come utente autonomo, utente avanzato: queste sigle che vanno in B1-B2… un C1-C2 già arriva alla conoscenza molto avanzata della lingua, fino ad arrivare ad un C2 che è un madrelingua. Diciamo che un classico B1 identifica una persona che se la sa cavare in alcune situazioni può essere sufficiente fino ad un certo punto, nel senso che comunque le sfumature e i dettagli per raccontare un prodotto, ma anche per avere un’attenzione superiore al cliente, quindi creare questa relazione e mettersi anche nei panni del cliente, capire quali sono le sue necessità – che è quello, lo scopo principale della relazione commerciale – può richiedere un livello, una conoscenza della lingua più avanzato. Quindi io direi che un B2 potrebbe farci stare tranquilli dal punto di vista linguistico. Poi però, quello che a me piace dire ed è ciò su cui punto molto quando parlo con gli imprenditori o con le aziende, è la conoscenza commerciale e l’approccio giusto al cliente che va oltre un aspetto meramente linguistico, e quindi proprio cercare di entrare in empatia con il cliente, cercare di capire quali sono le sue esigenze, e cercare di capire qual è il motivo per cui lui entra in affare, in relazione con noi.

Stefano: Perché poi pensavo – prima leggevo il tuo profilo – tu ti rapporti spesso alle piccole e medie imprese, che peraltro è un profilo abbastanza tipico del nostro vino. Nella piccola o media impresa, come si sa, si fa tutto: il proprietario, soprattutto, è chiamato a diverse occasioni di relazione, che sono il telefono, la fiera, la relazione vis-a-vis, magari in cantina o in un altro contesto. Ecco, cosa succede in una fiera, per esempio? Partiamo da questa situazione abbastanza tipica: rispetto alla lingua, tu che cosa osservi? Quali sono gli errori che noti?

Michela: Allora, al di là degli errori in sé, diciamo che a livello tecnico-linguistico l’errore tipico dell’italiano è che si dimentica le s del plurale o si dimentica la s alla terza persona, pensa in italiano e quindi cerca di tradurre la sintassi italiana e la costruzione italiana in inglese, il che non funziona, perché come sappiamo l’inglese ha un approccio completamente diverso, e quindi ha una struttura che richiede un approccio diverso rispetto alla sintassi italiana. Ma al di là di questo, l’errore principale secondo me consiste nel non saper quantificare a priori quelli che sono magari i propri punti di forza o i punti chiave, quelli che vorremmo rimanessero impressi nella mente dell’interlocutore, cioè come vorremmo poter attirare la sua attenzione, come vorremmo lui ci ricordasse, o le caratteristiche della nostra storia e del nostro prodotto che noi vorremmo lui si ricordasse… del non averli chiari ben chiari in testa fin da subito, e quindi di non riuscire a rendere in poco tempo, e in maniera abbastanza coincisa, i punti focali: questo avviene soprattutto quando nelle fiere, mock-around tasting, quindi dove ci sono degli eventi di degustazione, e dove il cliente stesso ha occasione di incontrare molti potenziali fornitori, quindi molti potenziali partner, diventa essenziale riuscire ad attirare la sua attenzione con un qualcosa di particolare, con un elemento che ci contraddistingua con la nostra identità. Questo, in italiano come in inglese, è una delle carenze che, secondo me, noi notiamo agli eventi o che comunque adesso si sta un po’ colmando, che però finora è stato un po’ il punto critico, perché sì la conoscenza del vino, certo la conoscenza tecnica, però anche la conoscenza del mercato e la conoscenza dell’approccio più idoneo a livello comunicativo del nostro cliente – che può essere cinese, giapponese, americano, quindi con un approccio totalmente diverso, non solo al business, ma anche alla vita – questo può fare la differenza: nel senso che se noi riusciamo a identificare in pochi secondi quello che effettivamente vogliamo che lui ricordi di noi, questo lo dovremmo saper fare non soltanto in inglese ma anche in italiano.

Stefano: Quindi ci stai dicendo: occhio, che qualche volta la questione non è l’inglese, ma è una questione a monte di aver identificato bene qual è il messaggio che vogliamo lasciare, forse i punti di forza che abbiamo, laddove vogliamo e possiamo distinguerci rispetto a un mercato che ha concorrenza e che è magari disattento nell’ascoltarci, che ci concede poco tempo in varie occasioni, come ad una fiera. Senti, ma con questo inglese, noi come siamo piazzati rispetto agli altri, rispetto alla lingua? Cioè, è possibile dire che noi italiani, soprattutto nel mondo del vino, siamo più o meglio di altri paesi con 犀利士

cui facciamo la gara nel vino?

Michela: Mah, allora. È risaputo che l’italiano medio non ha un’ottima conoscenza della lingua, non è molto famoso per sapersi destreggiare con le lingue straniere, e qui poi c’è chi dà la colpa al sistema scolastico…

Stefano: C’è qualcuno messo peggio di noi, oppure noi siamo i peggiori?

Michela: Guarda, possiamo dire che a livello europeo, messi peggio di noi, o comunque simili a noi, possono essere i francesi o gli spagnoli… anche loro con le lingue straniere non se la cavano molto, dobbiamo dire la verità. Poi chiaro, gli inglesi oe gli americani non hanno nessun tipo di problema, perché loro hanno questa cosa del passepartout, quindi loro con l’inglese vanno dappertutto e ritengono che non sia importante per loro imparare nessun’altra lingua straniera. Però stiamo parlando un po’ per stereotipi. È chiaro, io ho conosciuto molti wine export manager, comunque persone giovani e meno giovani che hanno investito nella formazione linguistica, italiani che magari hanno studiato all’estero, che hanno una formazione completa, sia commerciale che di marketing, e quindi si possono proporre anche come figure per le cantine e per queste aziende che si vogliono internazionalizzare, quindi è difficile fare una considerazione generale, anche se effettivamente c’è un gap abbastanza significativo tra l’italiano e il tedesco o i nord-europei, che effettivamente hanno una conoscenza linguistica decisamente superiore alla nostra, e che quindi possono avere un vantaggio competitivo da questo punto di vista. Però, ripeto, ci sono dei giovani o anche comunque degli imprenditori non più giovanissimi che stanno investendo molto nella formazione linguistica, che hanno capito molto l’importanza dell’apprendimento della lingua, ma anche di una formazione più completa a livello comunicativo e a livello di approcci interculturali, e quindi stanno investendo non solo nell’inglese, ma anche – come dicevamo prima – in lingue emergenti: nel cinese, nel russo, e in altre lingue che permettano loro di avere proprio un approccio diretto con il cliente senza l’uso di intermediari…

Stefano: Perché invece spesso, c’è magari l’intermediario, in altre forme di interazione. Non so, pensavo per esempio a quando si scrive via email: via email passa di tutto, passano questioni organizzative, logistiche, commerciali, quindi lì dentro ci sono poi anche linguaggi tecnici differenti… Cosa osservi? Cosa succede, in questo caso, nelle aziende, tipicamente?

Michela: Ci sono ancora aziende – magari le più piccole o le meno strutturate, o chi non ha effettivamente del personale specifico che li supporti nel back office, e quindi poi nella gestione della comunicazione commerciale anche al telefono o via email – che utilizzano Google Translate e tutti questi strumenti che effettivamente permettono comunque di comunicare in qualche modo…

Stefano: Di farsi capire.

Michela: Ecco, però è da prendere con le pinze: sappiamo che ci sono, oltre a Google Translate, anche altri strumenti online che per carità, se proprio uno deve capire un documento, magari qualche aiuto ce lo possono dare, però è molto rischioso affidarsi a questo genere di strumenti per comunicare. Poi, l’efficacia e l’efficienza della comunicazione scritta richiedono delle competenze diverse, non solo linguistiche appunto, ma anche proprio di analisi o di comunicazione: anche solo la traduzione di un sito internet o comunque i post sui social…...

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Come migliorare il nostro inglese per vendere il vino? Quali cose sottovalutiamo? Quali altre dovremmo superare?

Ne parliamo con Michela Colasante, trainer, interprete e traduttrice freelance, titolare di Beecome che da anni lavora nel settore del vino.

E’ decisivo lo “small-talk”: la conversazione di contorno per costruire la relazione. Quando non stiamo ancora parlando di affari, non stiamo trattando e nemmeno raccontando il nostro vino. Ci serve saper intrattenere e accogliere il nostro cliente: quando lo andiamo a prendere all’aeroporto, quando siamo a cena, quando parliamo di calcio. Saperci esprimere in modo agevole in quei momenti diventa più importante che conoscere esattamente tutti i termini tecnici del vino.

Note alla puntata:

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02:40 Gli italiani e l’inglese: questione di relazione

05:15 L’inglese prima e dopo gli affari

06:50 Lo small- talk in inglese per vendere il vino

10:20 Non solo l’inglese: il cinese, il russo, …

11:35 Intermedio, autonomo, avanzato. La differenza tra cavarsela e capire le necessità di chi abbiamo davanti

13:45 Gli errori che facciamo come italiani quando parliamo in inglese

14:45 Ma la lingua inglese non è il primo problema

17:50 L’inglese scritto: le email che mandiamo

22:15 Chi sta facendo le traduzioni per il nostro vino?

24:45 La prima che possiamo fare: gli strumenti online, i video, i ted talks, gli articoli e le pagine da cui trarre spunti

29:00 Parla, parla e ancora parla con qualcuno, via skype o al telefono: buttati, con un amico o con un cliente.

Puoi ascoltare l’intervista audio, cliccando in alto in questo articolo. Qui sotto c’è la completa trascrizione.

Stefano: Benvenuta Michela!

Michela: Grazie Stefano, buongiorno!

Stefano: Allora, Michela Colasante, vicentina di Schio, se non sbaglio. Trainer, interprete, traduttrice freelance in inglese, italiano e spagnolo, e ha un background economico-commerciale: lavora da tempo con export manager nelle piccole e medie imprese, ha un’azienda che si chiama Beecom e accompagna persone e aziende, e prodotti, nel processo di internazionalizzazione del Made in Italy, insomma. La cosa che mi piace davvero e per cui Michela è qui, è che il suo approccio rispetto alle lingue è molto orientato alla comunicazione e al marketing, e che la sua esperienza è particolare anche nel mondo del vino. E quindi sei perfetta, insomma, per Wine Internet Marketing. Senti Michela, partirei dal problema – se c’è un problema, ce lo confermerai tu – il problema con l’inglese: si dice che noi italiani ce la caviamo sempre, che alla fine ci facciamo capire e che in qualche modo sopperiamo, forse, a delle carenze con la nostra capacità di comunicazione. Ma questo è vero? Ed è vero in che misura?

Michela: È vero nel senso che la capacità è un po’ uno stereotipo, però effettivamente lo scontro nell’esperienza concreta e quotidiana che l’italiano, attraverso la gestualità e la sua capacità comunque comunicativa di entrare in empatia con il cliente o con un business partner internazionale, di qualunque cultura e provenienza sia, questa capacità dell’italiano è nota. Però effettivamente, conoscere la lingua, conoscere delle sfumature, conoscere in particolare la cultura del cliente o della persona con cui ci si interfaccia, fa la differenza. Nel senso che è importante che passi il messaggio, è importante creare la relazione, soprattutto se si vuole fare business nel lungo termine. Però, diciamo, sì, riuscire ad accogliere un cliente o comunque porsi nel modo giusto quando si va a visitare il suo paese e quando si entra in relazione con lui, è fondamentale: quindi non basta solo riuscire ad essere simpatici o comunque accoglienti, riuscire a comunicare nel modo giusto, ma effettivamente conoscerne la cultura e la lingua e soprattutto le differenze culturali, può fare la differenza, per non perdere opportunità di business e per calarsi un po’ nella realtà del cliente e capire cosa è effettivamente importante per lui, quindi non solo un discorso linguistico, ma anche un approccio multiculturale, e interculturale direi più che altro…

Stefano: Quindi hai già introdotto un paio di questioni, che vanno un po’ al di là della questione tecnica che forse, credo, sia superata, nel senso che ciascuno sa raccontare sé stesso, il proprio prodotto, l’azienda, magari le sfumature tecniche. Ciò che forse, ci stai dicendo, in cui siamo più deboli è nel creare questa relazione con una capacità linguistica che sappia non soltanto accogliere, ma creare la fiducia e quella naturalezza che forse richiedono le relazioni prima umane e poi commerciali.

Michela: Certo. Infatti la relazione, soprattutto in un settore dove effettivamente il cliente, o comunque il partner – possa essere un buyer, un importatore, un distributore o anche un agente – quello che ricerca è l’“Italian lifestyle”, quello che noi chiamiamo “Italian mood”: tutto quello che ruota attorno al vino in sé o a una piacevole serata in compagnia, e quindi tutto quello che riguarda la socialità e lo stare assieme e quindi la convivialità, cioè tutti questi aspetti – in questo settore in particolare – contano molto di più che non magari la conoscenza specifica di alcuni dettagli tecnici. Quindi, creare una relazione di lungo termine, e questo si fa una volta che si acquisisce una competenza linguistica che ci permette di essere sciolti e di avere anche una sorta di autostima e sicurezza quando ci si interfaccia con il partner straniero in lingua, ma anche la conoscenza culturale che ci permetta di far stare a proprio agio il nostro interlocutore proprio in queste situazioni conviviali: quindi, non solo ad una fiera o ad un evento, ma anche ad una cena… perché sappiamo, appunto, che gli affari soprattutto in questo settore si fanno a cena, si fanno davanti ad un bicchiere di vino e si fanno in una situazione anche magari informale, dove però si deve creare una piacevole atmosfera.

Stefano: Quindi saper parlare del tempo, del calcio, di quello che sta succedendo magari all’aeroporto, a cena, ad una situazione di incontro, diventa importante.

Michela: Certo, è tutto quello che è lo “small-talk”: tutta questa conversazione di contorno, che però non è più contorno, ma che diventa parte integrante della conversazione quando non parliamo in dettaglio di affari, di una trattativa o di una negoziazione o del nostro prodotto a livello più tecnico, ma sapere intrattenere l’interlocutore, come dicevi tu, quando lo andiamo a prendere all’aeroporto, quando siamo a cena… essere informati su quello che succede a livello internazionale, perché avere degli argomenti o comunque una conoscenza concreta dell’attualità, e quindi dei temi principali, e anche quello che avviene all’interno del suo paese perché effettivamente, se ci pensiamo, è importante – che ne so, se andiamo in Germania – sapere che sono in atto le elezioni o che c’è qualche tema che a loro sta particolarmente caro, anche se poi sappiamo che ci sono dei temi “sensitive”, un po’ sensibili o rischiosi, su cui è meglio non avventurarsi, come la politica, la religione o qualche altro tema un po’ più ostico. Però, saper parlare del tempo, saper parlare dell’attualità o dell’andamento generale del business o comunque di temi poco pesanti…

Stefano: Cioè, se parliamo adesso con un americano di USA, è meglio non parlare di Trump e Hilary…

Michela: Meglio non parlare di Trump e Hilary perché non sappiamo chi abbiamo di fronte, quindi non sappiamo effettivamente da che parte si schiera, però è indispensabile sapere che sono in corso le elezioni e che quindi una grossa fetta del pubblico è un po’ coinvolta da questa cosa, quindi segue i dibattiti, segue i confronti (scontri-confronti!), e quindi essere informati su questo chiaramente fa la differenza: può starci la battuta, magari sempre un po’ con leggerezza, senza addentrarsi troppo nel dettaglio e soprattutto se si tratta del primo incontro犀利士

. Poi, è chiaro che a mano a mano che conosciamo il nostro interlocutore, e mano a mano che troviamo del terreno in comune – perché alla fine è quello l’obiettivo, trovare delle cose che abbiamo in comune, degli interessi, che possono essere un’attività sportiva, qualcosa che riguarda la famiglia… anche se, anche la famiglia, al primo approccio, può essere un argomento un po’ ostico – però poi a mano a mano che si acquisisce confidenza, sono tutti elementi che arricchiscono la relazione e che rendono anche bello il business. Del resto, noi facciamo business con le persone, non con i prodotti e né con le aziende, quindi trovare cose in comune con il nostro interlocutore-cliente è la cosa più bella per questo scambio anche a livello personale, e non solo commerciale e professionale.

Stefano: Ma la domanda è: quindi fare questa cosa è piuttosto complicata, nel senso che prevede, al di là di un’attenzione al nostro interlocutore – che riguarda anche la sua cultura e il suo modo di rapportarsi a noi, di percepirci, i suoi gusti – prevede anche una conoscenza linguistica forse un po’ più approfondita o diversa da quella che abbiamo squisitamente tecnica del nostro settore… come si fa? Da dove si parte?

Michela: La conoscenza di base della lingua – e qui stiamo parlando dell’inglese, anche se poi potremmo aprire delle parentesi, nel senso che ci rendiamo sempre più conto che l’inglese ormai non è più sufficiente: stiamo parlando dell’inglese come lingua franca internazionale, come lingua degli scambi, lingua commerciale, però vedo sempre più aziende, soprattutto in questo settore, che investono sul cinese, investono sul russo, quindi fanno della formazione specifica, hanno dei contatti, o addirittura assumono del personale che ha queste competenze linguistiche che vanno anche oltre la lingua inglese… perché ormai diciamocelo, l’inglese non è più sufficiente se si vuole effettivamente approfondire, internazionalizzare su mercati diversi, su mercati anche emergenti o in forte sviluppo e quindi, tornando all’inglese, la conoscenza intermedia non è più sufficiente…

Stefano: “Intermedia”, quindi il livello di riferimento che tu prendi è l’intermedio.

Michela: Diciamo che un livello intermedio è anche difficile da definire, nel senso che, senza entrare nel dettaglio di quelli che sono i livelli ufficiali della conoscenza di una lingua straniera…

Stefano: Puoi aiutarci a farci capire?

Michela: Per un livello intermedio, diciamo, il Quadro di Riferimento Europeo identifica la conoscenza di una lingua come utente autonomo, utente avanzato: queste sigle che vanno in B1-B2… un C1-C2 già arriva alla conoscenza molto avanzata della lingua, fino ad arrivare ad un C2 che è un madrelingua. Diciamo che un classico B1 identifica una persona che se la sa cavare in alcune situazioni può essere sufficiente fino ad un certo punto, nel senso che comunque le sfumature e i dettagli per raccontare un prodotto, ma anche per avere un’attenzione superiore al cliente, quindi creare questa relazione e mettersi anche nei panni del cliente, capire quali sono le sue necessità – che è quello, lo scopo principale della relazione commerciale – può richiedere un livello, una conoscenza della lingua più avanzato. Quindi io direi che un B2 potrebbe farci stare tranquilli dal punto di vista linguistico. Poi però, quello che a me piace dire ed è ciò su cui punto molto quando parlo con gli imprenditori o con le aziende, è la conoscenza commerciale e l’approccio giusto al cliente che va oltre un aspetto meramente linguistico, e quindi proprio cercare di entrare in empatia con il cliente, cercare di capire quali sono le sue esigenze, e cercare di capire qual è il motivo per cui lui entra in affare, in relazione con noi.

Stefano: Perché poi pensavo – prima leggevo il tuo profilo – tu ti rapporti spesso alle piccole e medie imprese, che peraltro è un profilo abbastanza tipico del nostro vino. Nella piccola o media impresa, come si sa, si fa tutto: il proprietario, soprattutto, è chiamato a diverse occasioni di relazione, che sono il telefono, la fiera, la relazione vis-a-vis, magari in cantina o in un altro contesto. Ecco, cosa succede in una fiera, per esempio? Partiamo da questa situazione abbastanza tipica: rispetto alla lingua, tu che cosa osservi? Quali sono gli errori che noti?

Michela: Allora, al di là degli errori in sé, diciamo che a livello tecnico-linguistico l’errore tipico dell’italiano è che si dimentica le s del plurale o si dimentica la s alla terza persona, pensa in italiano e quindi cerca di tradurre la sintassi italiana e la costruzione italiana in inglese, il che non funziona, perché come sappiamo l’inglese ha un approccio completamente diverso, e quindi ha una struttura che richiede un approccio diverso rispetto alla sintassi italiana. Ma al di là di questo, l’errore principale secondo me consiste nel non saper quantificare a priori quelli che sono magari i propri punti di forza o i punti chiave, quelli che vorremmo rimanessero impressi nella mente dell’interlocutore, cioè come vorremmo poter attirare la sua attenzione, come vorremmo lui ci ricordasse, o le caratteristiche della nostra storia e del nostro prodotto che noi vorremmo lui si ricordasse… del non averli chiari ben chiari in testa fin da subito, e quindi di non riuscire a rendere in poco tempo, e in maniera abbastanza coincisa, i punti focali: questo avviene soprattutto quando nelle fiere, mock-around tasting, quindi dove ci sono degli eventi di degustazione, e dove il cliente stesso ha occasione di incontrare molti potenziali fornitori, quindi molti potenziali partner, diventa essenziale riuscire ad attirare la sua attenzione con un qualcosa di particolare, con un elemento che ci contraddistingua con la nostra identità. Questo, in italiano come in inglese, è una delle carenze che, secondo me, noi notiamo agli eventi o che comunque adesso si sta un po’ colmando, che però finora è stato un po’ il punto critico, perché sì la conoscenza del vino, certo la conoscenza tecnica, però anche la conoscenza del mercato e la conoscenza dell’approccio più idoneo a livello comunicativo del nostro cliente – che può essere cinese, giapponese, americano, quindi con un approccio totalmente diverso, non solo al business, ma anche alla vita – questo può fare la differenza: nel senso che se noi riusciamo a identificare in pochi secondi quello che effettivamente vogliamo che lui ricordi di noi, questo lo dovremmo saper fare non soltanto in inglese ma anche in italiano.

Stefano: Quindi ci stai dicendo: occhio, che qualche volta la questione non è l’inglese, ma è una questione a monte di aver identificato bene qual è il messaggio che vogliamo lasciare, forse i punti di forza che abbiamo, laddove vogliamo e possiamo distinguerci rispetto a un mercato che ha concorrenza e che è magari disattento nell’ascoltarci, che ci concede poco tempo in varie occasioni, come ad una fiera. Senti, ma con questo inglese, noi come siamo piazzati rispetto agli altri, rispetto alla lingua? Cioè, è possibile dire che noi italiani, soprattutto nel mondo del vino, siamo più o meglio di altri paesi con 犀利士

cui facciamo la gara nel vino?

Michela: Mah, allora. È risaputo che l’italiano medio non ha un’ottima conoscenza della lingua, non è molto famoso per sapersi destreggiare con le lingue straniere, e qui poi c’è chi dà la colpa al sistema scolastico…

Stefano: C’è qualcuno messo peggio di noi, oppure noi siamo i peggiori?

Michela: Guarda, possiamo dire che a livello europeo, messi peggio di noi, o comunque simili a noi, possono essere i francesi o gli spagnoli… anche loro con le lingue straniere non se la cavano molto, dobbiamo dire la verità. Poi chiaro, gli inglesi oe gli americani non hanno nessun tipo di problema, perché loro hanno questa cosa del passepartout, quindi loro con l’inglese vanno dappertutto e ritengono che non sia importante per loro imparare nessun’altra lingua straniera. Però stiamo parlando un po’ per stereotipi. È chiaro, io ho conosciuto molti wine export manager, comunque persone giovani e meno giovani che hanno investito nella formazione linguistica, italiani che magari hanno studiato all’estero, che hanno una formazione completa, sia commerciale che di marketing, e quindi si possono proporre anche come figure per le cantine e per queste aziende che si vogliono internazionalizzare, quindi è difficile fare una considerazione generale, anche se effettivamente c’è un gap abbastanza significativo tra l’italiano e il tedesco o i nord-europei, che effettivamente hanno una conoscenza linguistica decisamente superiore alla nostra, e che quindi possono avere un vantaggio competitivo da questo punto di vista. Però, ripeto, ci sono dei giovani o anche comunque degli imprenditori non più giovanissimi che stanno investendo molto nella formazione linguistica, che hanno capito molto l’importanza dell’apprendimento della lingua, ma anche di una formazione più completa a livello comunicativo e a livello di approcci interculturali, e quindi stanno investendo non solo nell’inglese, ma anche – come dicevamo prima – in lingue emergenti: nel cinese, nel russo, e in altre lingue che permettano loro di avere proprio un approccio diretto con il cliente senza l’uso di intermediari…

Stefano: Perché invece spesso, c’è magari l’intermediario, in altre forme di interazione. Non so, pensavo per esempio a quando si scrive via email: via email passa di tutto, passano questioni organizzative, logistiche, commerciali, quindi lì dentro ci sono poi anche linguaggi tecnici differenti… Cosa osservi? Cosa succede, in questo caso, nelle aziende, tipicamente?

Michela: Ci sono ancora aziende – magari le più piccole o le meno strutturate, o chi non ha effettivamente del personale specifico che li supporti nel back office, e quindi poi nella gestione della comunicazione commerciale anche al telefono o via email – che utilizzano Google Translate e tutti questi strumenti che effettivamente permettono comunque di comunicare in qualche modo…

Stefano: Di farsi capire.

Michela: Ecco, però è da prendere con le pinze: sappiamo che ci sono, oltre a Google Translate, anche altri strumenti online che per carità, se proprio uno deve capire un documento, magari qualche aiuto ce lo possono dare, però è molto rischioso affidarsi a questo genere di strumenti per comunicare. Poi, l’efficacia e l’efficienza della comunicazione scritta richiedono delle competenze diverse, non solo linguistiche appunto, ma anche proprio di analisi o di comunicazione: anche solo la traduzione di un sito internet o comunque i post sui social…...

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